Edito

La perdita della contemplazione

In un mondo attraversato da crisi politiche, climatiche e identitarie, dove la crescente cristallizzazione di regole e di standard tende impietosamente a soffocare vitalità e pensiero autonomo, nasce L’inattuale.

Il bisogno di certezze, nell’instabilità mondiale, ha restituito alle ideologie assolute e alle religioni il compito di rassicurare le masse. Identità ed appartenenza creano coesione e spesso l’illusione di sentirsi parte di un gruppo “scelto” o “superiore”. Per semplificare la complessità di un’epoca, uno schema divino diventa riparo rassicurante.

Più la tecnologia avanza, più l’uomo regredisce.

I discorsi fuori dal tempo che legittimano “guerre giuste” rispondono a dinamiche psicologiche radicate e rodate lungo la storia, anche la più recente. Va da sé che per un creativo, o per chi riesce ancora a esercitare stoicamente un pensiero critico sulla contemporaneità, non è possibile sentirsi in sintonia con il mondo attuale. La “morale da schiavi” è già stata smascherata, eppure continua a impregnare la nostra epoca.

Ecco allora che, nel presente instabile, l’arte contemporanea dovrebbe essere il campo dove disintegrare scorciatoie ideologiche e meccanismi di consolazione. L’inattuale ride delle promesse e afferma la vita, esalta il presente, la vicinanza e lo scambio tra gli individui, senza cercare consolazioni, senza offrire risposte assolute, ma sfidando il vuoto epocale.

Sì, è un compito vertiginoso perché espone l’uomo e l’artista al vuoto. Ma è proprio in questo vuoto che può balenare un nuovo inizio: un gesto, un’opera, un pensiero che non cercano più consolazione, bensì forza. Un lampo che squarcia la notte e lascia intravedere, per un istante, la possibilità di vivere senza catene.

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